1) A cosa serve il lavoro? Quante forme di lavoro conosciamo?
2) Tutte le forme di lavoro hanno bisogno di crescita o solo quello salariato?. Rimanendo all’ambito privato, quali forme di lavoro possiamo potenziare per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi?
3) Se valutassimo i settori produttivi in base all'utilità e alla sostenibilità, che percentuale di posti di lavoro stimiamo di dovere eliminare? Si tratterebbe di una perdita secca o altri mestieri e altri settori andrebbero potenziati in un'ottica di sostenibilità?
4) Quali richieste immediate avanzare al sindacato,ai partiti,alle istituzioni per favorire lo spostamento produttivo e redistribuire il ridotto ammontare di lavoro salariato?
5) L'economia pubblica va concepita unicamente come un comparto che spende o che produce anche ricchezza? La sua capacità di produrre ricchezza su cosa si fonda?
6) Per la parte che produce ricchezza, si possono immaginare forme di contribuzione collettiva che non risentono dell’ andamento dell’economia generale?
Il tema già proiettato ad una ridefinizione del futuro si è dimostrato di difficile analisi.
Già la bibliografia citata quale materiale di partenza era emblematica: più testi con più di 30 anni alle spalle rimangono ancora fondamento delle nostre attuali riflessioni: possibile che non ci sia nulla di più attuale?
Alcuni erano testi che avevano pervaso la gioventù di alcuni, altri di notevole complessità del linguaggio, altri su cui si manifestano dubbi di analisi.
Ma quello che più ci stupiva erano le domande su cui affrontare la discussione, banali da un lato, scardinanti dall’altro.
Ci sembrava e ci sembra che il nostro sia un compito arduo, in cui non basta una riflessione personale per redigere modalità di cambiamento e studi di fattibilità desiderabili dai più.
Tutti quelli che hanno provato da tanto o da poco (ad esempio cfr bibliografia in Fabris, La società post crescita) non è che siano meno profondi e meno preparati dello scrivente!!!!
Ma veniamo al dunque.
Abbiamo sortito con la riflessione che la società “monacale”, società in cui si fanno i “voti” non è il futuro che ci aspettiamo e ben difficilmente sarà la società desiderabile che è la ricerca su cui stiamo lavorando
Abbiamo poi osservato che il risultato della attuale società è la perdita del valore della collettività e la spinta esasperata per la individualizzazione di tutti gli aspetti sociali che hanno contraddistinto la seconda metà del secolo scorso.
In questo privilegiare il singolo e i suoi desideri ci siamo incamminati verso la ricerca di una risposta adolescenziale per tutti gli aspetti della vita.
Abbiamo parlato del sogno, di un sogno da coltivare insieme, senza paura di pensarlo grande perché ormai siamo tarpati anche nei nostri sogni.
Concordiamo sul fatto che da una ventina di anni nel nostro mondo vicentino e probabilmente italiano stiamo producendo di più di quanto ci possa servire.
In un’ottica di necessaria riduzione certamente bisogna trovare un modo per compensare le minori entrate fiscali per la necessaria finanziamento dei servizi sociali fondamentali, su cui si piccona alla grande e ormai si contano le briciole.
Si è parlato del fatto che il nostro mondo economico non è più un mondo produttivo, ma un mondo finanziario, si guadagna lautamente facendo girare soldi da una parte all’altra del pianeta, ma siamo ben lontani dalla necessaria produzione.
L’economia virtuale è ben lontana dalla economia reale.
Da tempo abbiamo superato la fase in cui il lavoro serviva alla sussistenza ed in seguito al benessere della persona e della collettività.
Bisogna ricordare che il lavoro è la vita, tutte le attività anche banali ma allo stesso tempo nobili che costellano la vita di ogni essere vivente in quanto carico di doveri e legato a diritti che purtroppo in tutto il mondo non hanno lo stesso valore e spessore.
Il lavoro è l’attività primordiale che ci ha modellati, è la forza plasmatrice dell’uomo e delle società che nel tempo di sono differenziate.
La questione è che leghiamo il lavoro al salario: chi non prende un salario non lavora.
Nella nostra società ormai chi non ha una busta paga non è considerato un lavoratore e la gran parte delle persone (vedasi i risultati della crisi attuale e le decine di migliaia di persone disoccupate nel Veneto) se non ha uno stipendio è in crisi esistenziale.
Si è parlato di lavoro, della necessaria stabilità che è presupposto principe di ogni sogno e di ogni progetto. Invece ci troviamo in un mondo in cui questo valore sembra sconfessato ogni dì.
Stabilità è collegato a solidarietà, in quanto chi è in una situazione di forza può garantire al più debole il necessario supporto; certamente ora ci troviamo che questo legame con la collettività è incrinato o ormai spezzato e tutti siamo protagonisti individualmente del nostro futuro, senza alcun legame con chi ci è attorno.
Viviamo in un mondo in cui il vicino è un possibile avversario, non esistono più legami di vicinanza o di sangue, di lavoro o di impegno extralavorativo.
Ci siamo confrontati con uno di noi che è stato espulso dal mondo del lavoro e ci siamo chiesti se effettivamente la tendenza a primeggiare sugli altri debba essere l’unico criterio con cui trattare i salariati, se non esistano altre forme e altri fini.
La battuta: Odio i volontari” la dice lunga sull’approccio che è tutto da reinventare dei lavori non salariati che possono essere una risposta alle minor presenze dello stato in attività che il volontariato può esprimere.
Vedere i volontari come manovalanza non retribuita è proprio il modo esatto di osservare questa realtà?
I volontari stanno facendo di tutto per sposare questa filosofia?
Certamente bisogna partire dai bisogni e il lavoro è in qualche forma un bisogno, una forma espressiva di ognuno, il luogo dove la nostra creatività trova concretizzazione.
L’analisi che ci ha portato a confrontare le garanzie deumanizzanti dei paesi ex socialisti in cui il lavoro per tutti se da una parte era garanzia minima di servizi accettabili, dall’altra era una realtà asfissiante e controproducente che ha portato a minare alla base il sistema.
La flessibilità di cui il mondo del lavoro continua a richiedere un ampliamento dei confini e che finora è vista solo come possibilità di licenziamento deve essere rivista in modo da garantire un lavoro alternativo, magari lavorando di meno ma certamente con una garanzia di continuità.
Altro accenno interessante è stato quello nel chiederci se siamo troppo efficienti. Ha senso questa superefficienza che lascia sulla strada fior fiore di donne e uomini?
Abbiamo parlato che questa efficienza è anche legata al bassissimo costo dell’energia attuale.
Per quanto riguarda le forme di lavoro da potenziare, le più interessanti riguardano gli ecolavori, ma molti vivono di contributi statali (cfr pannelli fotovoltaici).
Abbiamo parlato che un lavoro da privilegiare è certamente il lavoro legato alla terra: di fronte alla fuga dai campi e la sempre maggior dipendenza dall’estero per quanto riguarda i prodotti alimentari, rimane aperto il futuro dell’agricoltura. Di sicuro nessuno è disposto a sacrificare 365 giorni all’anno e essere funzionale alle bizze del tempo per un lavoro del genere. Il nostro non deve essere la riproposta moderna della mezzadria!
Abbiamo ripreso alcune domande sul lavoro: non è necessario la crescita continua. Prendendo dalla termodinamica, siamo un sistema chiuso e se entra qualcosa, qualcosa deve uscire.
Inoltre abbiamo accennato al fatto che è necessario trasformare più che crescere.
Infine un cenno al pubblico e al privato. Ormai al pubblico rimane solo quello che non può essere fonte di guadagno. Qualsiasi cosa che può essere fonte di reddito ormai è stato privatizzato (cfr la questione dell’acqua che esce dal pubblico).