Abbiamo iniziato a interrogarci su questo argomento, individuando quella che senza dubbio è la paura principale, che è legata al lavoro, perchè lavoro significa denaro, denaro per sopravvivere, mangiare, vivere. Nel mondo che abbiamo costruito, nella società che ogni giorno riproduciamo, il lavoro/denaro è l'unica fonte da cui deriva la possibilità di soddisfare quei bisogni fondamentali che ci tengono in vita e ci rendono “sociali”, è l'unica fonte da cui discendono i diritti di cittadinanza, per esempio niente lavoro, niente permesso di soggiorno se sei immigrato. Anche se da anni vivi in Italia, se perdi il lavoro, diventi clandestino. Lavoro che ce n'è sempre di meno, che è precario, che non si arriva alla fine del mese....questa poi è stata un'estate -ma era già iniziato prima con gli operai sui tetti e sulle gru- dove si sono distrutte credenze e certezze, dove sono “caduti i veli”, dove, nonostante l'evidenza, i più continuano a negarlo: l'evidenza che capitalismo e democrazia sono veramente inconciliabili. Come crescita economica e ben vivere.
Secondo noi non è la decrescita che potrebbe mettere in crisi l'occupazione, quello che la mette in crisi è questo modello di economia, che, arrivato alla saturazione del mercato e della nostra capacità d'acquisto, di fronte alla riduzione o alle incertezze degli ordinativi, per continuare a fare profitto trova altre strade, gettando i lavoratori (come ha sempre fatto del resto, solo che ora lo fa anche con noi, privilegiati del nord del mondo), gettandoci come cose che non servono più. Perchè in questo sistema quello che conta è il profitto, tutto ruota su quello, tutto si adatta e finalizza a quello. Secondo la Commissione Europea a fine 2009 i disoccupati erano il 9,5% con punte del 19 in Spagna, in Italia era dell'8,5%, ma il governatore di Bankitalia Draghi ha detto che la disoccupazione reale (cioè comprendente scoraggiati e cassintegrati), è attorno all'11% . Particolarmente grave la disoccupazione dei giovani: nella U.E., sempre a fine 2009 risultava del 21,4% e in Italia sfiorava il 30%.
Chi un'occupazione ce l'ha si trova seriamente minacciato dal degrado delle condizioni del lavoro: aumento della precarietà con i contratti atipici (chi lavora con un contratto atipico è precario per legge), peggioramento della qualità del lavoro, aumento del numero dei lavoratori poveri.
L'ammontare della quota del salario sul P.I.L. nei 15 paesi OCSE più ricchi è diminuita in media di 10 punti tra 1976 e 2006, scendendo dal 68 al 58% circa. In Italia il calo ha toccato 15 punti scendendo dal 68 al 53%. I punti persi dai salari sono andati per lo più alle rendite finanziarie e immobiliari e ai compensi dei manager. Compensi che sono passati da 35-40 volte il salario medio verso il 1980 a 300-400 volte nei primi anni del 2000.
Ma il costo del lavoro? Nel settore automobilistico, per esempio, il lavoro rappresenta solo il 7-8% dei costi.
Davvero non si può fare diverso, davvero non può esserci un modo che non sia competitivo-compulsivo, quantitativo-cumulativo, o corrotto o individualistico meritorio?
Certo che si può fare diverso. Ma le caratteristiche umane psicosociali e culturali....sono adattate a, prodotte da, questo sistema di vita. Il fatto che non vediamo altre possibilità non vuol dire che non ci sono e soprattutto non vuol dire che ci si debba adeguare all'esistente.
1) A cosa serve il lavoro? Quante forme di lavoro conosciamo?
“....chi scrive sul lavoro (salariato), sul suo valore, dignità, gioia, scrive sempre del lavoro fatto da altri.”
Tra tutte le definizioni di “lavoro” quella che ci è sembrata più convincente è di Latouche :
Il "paradigma" del lavoro è il risultato della giustapposizione contraddittoria di un immaginario emancipatore e di una realtà di asservimento. L'immaginario: è quello dell'artigiano libero che vive del frutto della sua abilità a trasformare la natura per il soddisfacimento dei nostri bisogni. La realtà invece è quella dell'alienazione specifica al rapporto salariale: l'eseguire nel quadro di un rapporto subordinato, compiti perlopiù gravosi in una fabbrica o in un ufficio. E' la sottomissione formale e reale al capitale, senza il controllo tecnico del processo, nè ovviamente la capacità economica di riappropriarsi del frutto della propria attività." p.57
I proletari hanno preso molto sul serio questa costruzione ideologica che ha influenzato tutta la società, anche le "opere" (cioè la realizzazione di sè nell'oggetto artistico o artigianale) e l'"azione" (cioè l'espressione della vita politica del cittadino) secondo Hanna Arendt altre due forme dell'attività umana, che si trovano a essere più o meno colonizzate dal paradigma del lavoro.
Insomma si ha un'"imperialismo del lavoro" nel senso che il termine non designa più solo l'attività salariale sotto il dominio capitalistico, ma viene a significare abusivamente qualsiasi forma di attività finalizzata. p.58-59
Nell'asservimento/dipendenza del lavoro, salariato ma non solo, specialmente quando il salario è “tutto”: c'è qualcosa di storto.
Il lavoro serve a produrre un reddito monetario per il nostro sostentamento; serve a produrre beni e servizi; però, le tecnologie, l'informatica e l'evoluzione del capitalismo e della globalizzazione, fanno sì che diminuisce il numero di esseri umani necessari alla produzione.
Il lavoro che ci fa disperare, perche viene a mancare, perche è poco redditizio, o perchè manca o anche perchè è troppo. Tutto, anche quello di volontariato è intriso di mentalità produttivistica, per essa tutta la realtà ha senso solo in quanto dominabile e che può essere sfruttata. E' necessario un nuovo equilibrio tra il lavoro e le altre dimensioni dell'esistenza, dobbiamo reintegrare le altre possibilità di essere dell'umano: la solidarietà, l'elevazione spirituale, la comprensione di tutti i viventi e della natura in una relazione orizzontale.
Le altre attività non remunerate o che non generano reddito, pur se indispensabili alla nostra vita: quelle che Illich chiama “lavori ombra”, la “schiavitù industriale”, che è “a tal punto routine da restare senza nome, il fare non retribuito economicamente costrittivo”.Tutta quella mole di attività, molto varie e non evitabili che, se ti sembrano poco faticose, vuol dire che qualcuno le fa per te.
”L'esistenza nella società industriale, dove la disoccupazione è in continuo aumento, sempre più si svolgerà nell'ambito di quest'ombra” dice, profetico, a pagina 127. Non sono considerate “lavoro”: autoproduzione, lavoro domestico, di cura ecc.
2) Tutte le forme di lavoro hanno bisogno di crescita o solo quello salariato?. Rimanendo all’ambito privato, quali forme di lavoro possiamo potenziare per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi?
Il lavoro salariato ha bisogno di crescita per garantire il costante aumento della produzione, cardine della attuale economia mondiale. E per garantire un reddito alla popolazione “sviluppata” ed in via di sviluppo sempre demograficamente in aumento. A queste necessità tuttavia sta rispondendo la aumentata produttività delle macchine che fa crescere la disoccupazione e fa calare i consumi. Con la conseguente crisi dei consumi e il ricorso a prestiti.
Va potenziato il terzo settore, quello della società civile, che include tutte le attività no profit formali ed informali della società. Se nel terzo settore dalle attività derivano conseguenze economiche, esse sono secondarie rispetto allo scambio sociale. Lo scopo non è l'accumulo di ricchezza ma la coesione sociale.
Diversamente dal capitalismo la società civile comincia con la premessa esattamente opposta- è il dare sé stesso agli altri da parte di ognuno e l'ottimizzare il bene sociale nella comunità allargata che fanno crescere il benessere di ciascuno.
3) Se valutassimo i settori produttivi in base all'utilità e alla sostenibilità, che percentuale di posti di lavoro stimiamo di dovere eliminare? Si tratterebbe di una perdita secca o altri mestieri e altri settori andrebbero potenziati in un'ottica di sostenibilità?
I lavori da eliminare sarebbero tanti tuttavia in un periodo di transizione ci sarebbero molti altri lavori che verrebbero creati, ad esempio nel settore dell'energia se si passasse dai combustibili fossili ad energie rinnovabili o all'idrogeno, un settore totalmente nuovo, andrebbero sostituite ad esempio le vetture attuali, smantellate quelle in circolazione per recuperarne tutte le materie prime.
Anche il settore dei rifiuti e del riciclaggio potrebbe essere un settore dove creare tanti posti di lavoro per recuperare di ogni oggetto dismesso tutte le materie prime di cui è composto.
4) Quali richieste immediate avanzare al sindacato,ai partiti,alle istituzioni per favorire lo spostamento produttivo e redistribuire il ridotto ammontare di lavoro salariato?
Più lavoro. Oppure più semafori!?
A sindacati e istituzioni: di sviluppare la ricerca su prodotti socialmente ed ecologicamente compatibili, per esempio per l'industria dell'automobile, che nel mondo occupa 12 milioni di persone circa, è da pensare prima di tutto un nuovo modello di mobilità, però nel contempo è indispensabile creare alternative occupazionali certe, perchè solo da una discussione concreta e condivisa può partire la costruzione di un nuovo modello di sviluppo.
Altri strumenti indispensabili sono: la diminuzione dell'orario di lavoro, la riconversione dei settori produttivi non più redditizi, o troppo energivori, o inquinanti ecc. Come la Electrolux, per esempio, che ha trasformato la produzione di elettrodomestici in produzione di pannelli solari.
I sindacati e la difesa del lavoro potrebbe allargarsi e uniformarsi a livello mondiale. Sindacati che dovrebbero mettere al primo posto la tutela delle persone prima della rappresentanza.
Riguardo ai partiti intanto si potrebbe chiedere, come dice ancora Landini, che “ricomincino a occuparsi di lavoro”.
Ma, altrettanto essenziale è lo scollamento tra lavoro e possibilità di condurre una vita dignitosa, perchè finchè si continua a dipendere dal lavoro, qualunque lavoro, nessuna attività potrà essere disinteressata e volta davvero a soddisfare bisogni reali, che partono dalla persona e non creati ad arte dall'esterno. A questo scopo forme di reddito di cittadinanza sarebbero sicuramente utili.
Saranno necessarie anche forme di autoattivazione soprattutto per attutire gli impatti maggiori nella transizione che è molto difficile immaginare indolore, potrebbero prevedere:
alleanze sociali il più ampie possibili (come nella manifestazione del 16 ottobre, promossa dalla Fiom); sistemi o gruppi di mutuo soccorso; lo sviluppo di forme di autoformazione dove inventare modi diversi di conoscenza per il ripristino di sistemi di apprendimento che presuppongano spirito critico (a sostituire quelli troppo basati sulle tecniche che agevolano atteggiamenti passivi).
Trasformare aziende in cooperative gestite non più da proprietà imprenditoriale, ma dagli operai (come per la cooperativa “ILARIA” , ex COF Lucca).
5) L'economia pubblica va concepita unicamente come un comparto che spende o che produce anche ricchezza? La sua capacità di produrre ricchezza su cosa si fonda?
L'economia pubblica come l'abbiamo conosciuta finora è, molto probabilmente, legata a un preciso momento storico che è giunto quasi al suo termine, al suo superamento.
Mentre da più parti (quelle che non hanno le leve del comando) si legge che per uscire dalla crisi servirebbe più redistribuzione della ricchezza (per aumentare e sostenere i consumi), e più welfare (per aumentare e sostenere l'ingresso delle donne nel mondo del lavoro e per aumentare la natalità), dall'altra la realtà dell'economia va dalla parte opposta, ed è pronta a gettare nella miseria parti sempre più ampie di cittadini mentre smantella e rende inutilizzabile il welfare residuo a danno non solo del presente, ma anche del futuro.
Allora è necessario un nuovo patto sociale, forse.
Non più basato sul “pubblico” come lo abbiamo conosciuto finora, cioè un pubblico spersonalizzato che si occupa di tutto lui e i cittadini ne risultano deresponsabilizzati da una parte (anche l'evasione fiscale rientra in ciò), e vittime della burocrazia dall'altra. Vi è l'urgenza di pensare ad altre “forme” su cui basare il patto sociale, che contemplino una maggiore partecipazione degli “abitanti” come è stato detto a Teano. Forse una forma più leggera di “pubblico”, affiancata da nuove forme di proprietà (articolo 43 della costituzione) comunitarie, come dice anche, tra gli altri, S. Rodotà, nuovi modi di gestione dei Beni Comuni. Un nuovo progetto di società, per ridirsi, ridefinire, quale consideriamo oggi il Bene Comune della comunità, se il fine di questa nostra società oggi sono le persone e l'integrazione sociale oppure i beni materiali e l'arricchimento e quindi la crescita quantitativa e individualistica. La ricchezza potrebbe essere lo “sviluppo” sociale, la capacità di collaborare per il/i fini comuni, di “produrre” il benessere della comunità che parte dai bisogni essenziali e materiali: cibo, abitare ecc., per proseguire con il diritto di tutti all'aria pulita, all'acqua non inquinata, agli spazi verdi per muoversi, al tempo, tanto tempo in più per sé e per gli altri, la cura per la spiritualità ecc.
Oppure ci dividiamo in due società diverse, una delle quali, quella che sceglie il ben vivere invece dell'avere, si autorganizza facendo a meno di questo stato e soprattutto di questa classe dirigente!
6) Per la parte che produce ricchezza, si possono immaginare forme di contribuzione collettiva che non risentono dell’ andamento dell’economia generale?
Forme di contribuzione collettiva alle esigenze della comunità potrebbero essere organizzate come le banche del tempo, dove ognuno mette a disposizione le proprie capacità.
Le esperienze e le sperimentazioni dello SCEC, potrebbero integrarsi a collegare i servizi e gli altri settori dell'economia.