1) A cosa serve il lavoro? Quante forme di lavoro conosciamo?
2) Tutte le forme di lavoro hanno bisogno di crescita o solo quello salariato?. Rimanendo all’ambito privato, quali forme di lavoro possiamo potenziare per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi?
3) Se valutassimo i settori produttivi in base all'utilità e alla sostenibilità, che percentuale di posti di lavoro stimiamo di dovere eliminare? Si tratterebbe di una perdita secca o altri mestieri e altri settori andrebbero potenziati in un'ottica di sostenibilità?
4) Quali richieste immediate avanzare al sindacato,ai partiti,alle istituzioni per favorire lo spostamento produttivo e redistribuire il ridotto ammontare di lavoro salariato?
5) L'economia pubblica va concepita unicamente come un comparto che spende o che produce anche ricchezza? La sua capacità di produrre ricchezza su cosa si fonda?
6) Per la parte che produce ricchezza, si possono immaginare forme di contribuzione collettiva che non risentono dell’ andamento dell’economia generale?
PRIMA DOMANDA: La prima paura che ci lega alla crescita è quella di perdere il lavoro.
Il lavoro ha più dimensioni: sostentamento economico, ruolo sociale e realizzazione personale, intesa come creazione di un'identità riconosciuta, affermazione di sé.
Solo la prima dimensione è necessariamente legata al reddito monetario, le altre due non lo sono in sé ma lo sono di fatto poiché nel nostro sistema di valori tutto ruota attorno al denaro.
Il lavoro come affermato dalla nostra costituzione nell'articolo 1 è alla base della nostra repubblica, segna il passaggio da una società basata sul diritto di nascita ad una basata sul contributo diretto di ogni cittadino all'organizzazione e allo sviluppo della società. E' quindi un diritto di tutti i cittadini italiani.
Di fatto il mercato ha privatizzato il lavoro, svuotandolo completamente del suo valore di diritto. Oggi avere un lavoro è un merito o peggio una concessione che una società di ricchi concede ai cittadini più virtuosi.
SECONDA DOMANDA: Se cala il Pil (come previsto dalla decrescita) cala l'occupazione ! Ma è vero ?
Se osserviamo i dati sull'occupazione e sul Pil negli ultimi 20 anni sembrerebbe di sì. Ad aumenti del Pil corrisponde un aumento del reddito pro-capite ed una diminuzione del tasso di disoccupazione. Gli USA per esempio sono arrivati ad avere il 6,5% di disoccupazione prima della grande crisi finanziaria del 2008.
Ma se andiamo a vedere come è distribuito il reddito nella popolazione (il Pil pro-capite è una misura media che non dice nulla sulla distribuzione della ricchezza all'interno dell'economia di un paese) scopriamo che non è così. Osservando l'indice di Gini (Corrado Gini matematico ed economista) che misura la distribuzione del reddito nelle varie fasce di popolazione, scopriamo che negli ultimi 30 anni il Pil delle economie sviluppate è sì cresciuto ma è cresciuta enormemente la disparità nella distribuzione del reddito. L'Italia ha un indice di Gini di 0,36 su una scala da 0 uguaglianza perfetta a 1 disuguaglianza massima. Gli USA hanno un indice di Gini di 0,41, i paesi scandinavi hanno un Gini di 0,22. E che quel che è peggio è che negli ultimi anni questo indice è andato costantemente a peggiorare nonostante il Pil, prima del 2008, fosse sostanzialmente cresciuto in tutti i paesi sviluppati.
Quali sono le ragioni di questo divario ?
1. Aumento della produttività pro-capite: la tecnologia applicata alla produzione industriale, all'agricoltura e al terziario ha nettamente aumentato la produttività pro/capite in tutti i settori, ma questo non ha significato un aumento del reddito dei lavoratori n'è la riduzione dell'orario di lavoro (con alcune piccole eccezioni, vedi il caso Francia con le 35 h settimanali, oggi largamente contrastate), ma solo e soltanto l'aumento dei profitti delle grandi aziende.
2. Delocalizzazione: la globalizzazione economica, con la conseguente decisione di abbattere le frontiere per merci e capitali (non certo per le persone!), ha aperto la possibilità ai grandi capitali di spostare in qualsiasi momento il lavoro la' dove conviene di più. Questo ha abbassato enormemente la capacita contrattuale dei lavoratori mettondoli in competizione con lavoratori di altri paesi, in assenza di regole comuni sul fronte dei diritti fondamentali.
3. Precarizzazione del lavoro: questo punto discende direttamente dal secondo, i diritti conquistati da anni di lotte della classe operaia in occidente sono stati aggrediti dalla concorrenza internazionale, sono comparse nuove e subdole forme di lavoro (interinale, parasubordinato ecc.) che di fatto hanno abbassato salari e protezione sociale. Questa precarizzazione del lavoro spiega anche i dati relativamente positivi sul livello di occupazione (perlomeno prima del 2008), visto che lavoratori con contratto a tempo indeterminato o precario risultano comunque occupati. Si lavora, si ma in che condizioni? Con quale reddito?
4. Consumismo - indebitamento: il meccanismo stesso del consumismo, che spinge continuamente a comprare nuovo oggetti e creare rifiuti, di fatto impoverisce i consumatori, sempre più indebitati per rispondere a modelli sociali basati sul lusso e sullo spreco. I pubblicitari al servizio delle grandi multinazionali parlano espliitamente, nella progettazione dei loro prodotti, di obsolescenza programmata (oggetti nati per rompersi alla svelta) e obsolescenza percepita (la sensazione di non essere più alla moda e quindi il bisogno di rinnovare il proprio patrimonio di oggetti: vestiti, auto, telefoni. Tutto diventa parte della nostra identità e quindi necessario). Questa spirale di acquisti ha portato l'indebitamento delle famiglie a livelli stratosferici senza tuttavia riflettersi sulla crescita dell'occupazione e del reddito (vedi i punti sopra).
5. Speculazione finanziaria: i grandi capitali acquisiti dalle multinazionali commerciali, dalle grandi banche, dalle grandi compagnie assicurative non si sono riversate sulla produzione, creando occupazione e ricchezza diffusa, ma sulle borse internazionali: complice una deregolamentazione (*) dei flussi di capitali, una tassazione iniqua che tassa il reddito speculativo del 12%, mentre il reddito da lavoro e' tassato oltre il 40% e la sensazione che la base sociale capace di tenere alta la freccia dei consumi si stava rapidamente assottigliando, rendendo inutile di fatto l'aumento della produzione industriale. La finanziarizzazione dell'economia ha concentrato ancora di più le risorse in mano ai grandi gruppi e non solo, ha innescato una spirale perversa di "fagocitamento economico" dove il pesce grosso mangiava il pesce piccolo a spese della distribuzione della ricchezza mondiale e della concorrenza, unico elemento che avrebbe dovuto regolare il sistema.
(*) Nonostante questo scenario planetario segnato dal dilagare inarrestabile del capitalismo globale più sfrenato e cinico, il nostro attuale ministro dell'economia, Giulio Tremonti (testa pensante del governo berlusconiano di centrodestra) ha declamato l'urgente necessità di riformare l'art. 41 della Costituzione italiana allo scopo di rendere più libera (e irresponsabile?) l'attività d'impresa. L'articolo 41 recita: "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. ....". Rileggendo questo testo alla luce della dichiarazione di Tremonti si rimane senza fiato: dove si vuole arrivare con la deregulation? davvero il rispetto della libertà e della dignità umana sono un ostacolo alla attività imprenditoriale? a quando la restaurazione della schiavitù nei luoghi di lavoro in nome dell'abbattimento del costo del lavoro e della competitività del sistema?
TERZA DOMANDA: Se cala il Pil calano anche i servizi
Il primo problema del sistema è quello di distribuire la ricchezza. Altrimenti il sistema stesso resterà nella fase di crisi in cui ci troviamo. Gli strumenti sono essenzialmente: la tassazione progressiva, la lotta all'evasione fiscale, la protezione sociale diffusa (scuola, sanità, acqua, casa, lavoro).
i primi due elementi rientrano nell'ambito dell'azione politica e sono nelle possibilità di qualsiasi governo se ce n'e la volontà.
Alcuni sistemi di tassazione introducono elementi di giustizia sociale: per esempio una tassazione con aliquote progressive (progressivamente eliminate in tutti i sistemi economici neoliberisti), una tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle emissioni inquinanti per spingere lo sviluppo di un'industria verde.
Il terzo elemento richiede un diverso approccio poiche' in un'ottica di decrescita economica se leghiamo i servizi al Pil non c'e via d'uscita. Dobbiamo trovare soluzioni che valorizzino il contributo dei cittadini alla cosa pubblica al di la' della tassazione.
Un modo può essere quello di chiedere tempo ai cittadini in cambio di servizi: estendere il servizio civile volontario a fasce estese della popolazione in cambio di incentivi culturali o socio/sanitari, organizzare ed estendere il meccanismo delle banche del tempo o del baratto sperimentato nelle reti di economia solidale. Dobbiamo cercare di ricostruire una cultura del bene comune, distrutta da anni di neoliberismo e "privatismo", ma non possiamo passare all'obbligo di una leva civile, le esperienze del passato lo dimostrano. Solo se aumenterà la fiducia nella propria comunità e nei rapporti sociali si potrà arrivare ad un'estensione a tutta la popolazione di un servizio gratuito per la comunità stessa che abbatterebbe radicalmente la dipendenza del welfare dall'andamento del Pil.
Fonti bibliografiche:
Il sistema globale, Manlio dinucci, Zanichelli
Con i soldi degli altri, Luciano Gallino
www.wikipedia.it (indice di Gini)