1) A cosa serve il lavoro? Quante forme di lavoro conosciamo?
Fondamentalmente il lavoro risponde alle seguenti “necessità” umane:
- avere un reddito per vivere
- occupare il proprio tempo
- fornire servizi alle persone
- praticare una disciplina (orari, rispetto per le persone e le cose)
- sviluppare creatività
- acquisire esperienze
- poter esprimere se stessi in un’attività, essere apprezzati per quel che si fa, produrre e creare per sè e per gli altri.
Da questo punto di vista il lavoro può avere molteplici forme, ma distingueremmo:
- prestazioni d’opera retribuite alle dipendenze di altri (“vendo il mio tempo”),
- prestazioni d’opera retribuite autonome (“vendo il mio prodotto o servizio”),
- prestazioni d’opera volontarie e gratuite
- in cambio di altro lavoro o prodotti o servizi
- senza ricambio
Per quanto riguarda il concetto più culturalmente diffuso relativamente al significato del lavoro, nell’ambito del modello di sviluppo economico capitalistico, inteso come “attività retribuita”, ci appare importante richiamare alcuni concetti della più ampia e quanto mai attuale analisi proposta da Karl Marx nell’opera "Manoscritti economico-filosofici del '44". Tale richiamo potrebbe assumersi come stimolo all’individuazione di altre vie, nuove forme di lavoro che non rappresentino semplicemente mezzi per accumulare profitti, quanto piuttosto forme mirate a sviluppare la dignità, la libertà e le capacità dell'uomo.
Secondo Marx il lavoro è il rapporto attivo che l'uomo stabilisce con la natura e con gli altri uomini, con l'ambiente naturale e sociale in cui vive... è attraverso il lavoro che l'uomo è in qualche modo creatore di se stesso, non solo della sua esistenza materiale, ma anche del suo modo di essere, della sua esistenza come capacità di espressione e di realizzazione di sé. Il lavoro, secondo Marx, è la manifestazione della libertà umana, cioè della capacità umana di creare la propria forma di esistenza specifica.
Il lavoro, come rapporto dell'uomo con la natura e con gli altri uomini, si esprime storicamente, entro determinati rapporti storici di produzione (nell'antico modello di produzione schiavistico, poi in quello medioevale aristocratico- servile, oggi in quello borghese-capitalistico).
Nel modello di produzione capitalistico, secondo Marx, il lavoro è un "lavoro alienato" che si caratterizza e produce sul lavoratore estraniazione dal prodotto del lavoro (il prodotto del lavoro rappresenta una realtà estranea rispetto al lavoratore e il lavoratore diventa una semplice macchina), estraniazione dall'attività lavorativa ( il lavoro resta estraneo all'operaio, non appartiene al suo essere; ne consegue che il lavoratore si sente libero soltanto nelle sue funzioni bestiali. "Il bestiale - dice Marx - diventa l'umano e l'umano diventa il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare etc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'attività umana e ne fa degli scopi ultimi e unici"), estraniazione dall'essenza umana (il lavoro, l'attività vitale dell'uomo, la libera attività consapevole e creativa con cui l'uomo esprime e realizza se stesso, con cui realizza la propria essenza, diventa solo un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, il bisogno di conservazione dell'esistenza fisica..... "La vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto un mezzo di vita"), estraniazione dall'altro uomo (l'immediata conseguenza del fatto che l'uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è l’estraniarsi dell'uomo dall'uomo. Nel rapporto del lavoro alienato ogni uomo considera gli altri secondo la misura e il rapporto in cui si trova egli stesso come lavoratore, nel lavoro l'uomo non appartiene a sé ma a chi detiene il controllo dei mezzi di produzione).
Un altro punto di vista interessante sul significato del lavoro è quello di genere che ci richiama al differente modo di intendere il lavoro tra visione maschile e visione femminile. La teoria economica, dominata soprattutto da uomini, ha separato completamente la concezione di economia dal resto degli ambiti del vivere sociale, ha scisso il mercato, inteso come luogo di scambio per danaro, da famiglia, comunità e nei casi più estremi dalla stessa politica. Ma il termine economia viene dal greco “legge della casa” e ancora oggi il fulcro delle attività di produzione, consumo, scambio sono le famiglie, intese in senso lato. Una visione al maschile del mondo ha così portato a incrementare notevolmente il valore sociale del contributo tradizionalmente maschile, che si svolge prevalentemente nel mercato e a sottovalutare o addirittura a ignorare il contributo tradizionalmente femminile, rimasto in ambito famigliare o comunitario. Ne consegue che il lavoro non retribuito svolto quotidianamente dalle donne resta invisibile e che le stesse donne siano in buona parte considerate economicamente inattive. A questo proposito risulta interessante citare l’analisi effettuata da Paola Monti che in un articolo apparso su Lavoce.it nel 2007 ha attribuito al lavoro non pagato nel nostro paese un valore pari al 33% del PIL. Come dire che il fatto di guardare alle donne nell’economia non può limitarsi a considerare il lavoro dipendente contrattualizzato, perché questa è solo una forma del loro lavoro. Ogni donna nella sua esperienza, che viva in un villaggio africano o in una metropoli occidentale, sa che una descrizione della sua vita che si limiti al lavoro remunerato non può che andarle stretta. Non è il solo lavoro formale che definisce l’uomo, il lavoro propriamente umano è ben altra cosa rispetto al tempo trascorso fuori casa in cambio di uno stipendio. È fondamentale capire che in un certo senso è proprio “l’altro” lavoro, a generare lo sviluppo economico.
2) Tutte le forme di lavoro hanno bisogno di crescita o solo quello salariato?. Rimanendo all’ambito privato, quali forme di lavoro possiamo potenziare per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi?
Da decenni la “crescita” (di produzione e consumi) sta avvenendo con una diminuzione del tempo di lavoro. L’aumento di disoccupazione non è dovuto solo alla crisi di crescita ma anche e soprattutto al modo in cui il sistema produttivo (per gli sviluppi tecnologici e la concorrenza) tende a ridurre e a rendere sempre più precari i “posti di lavoro”.
Si potrebbe lavorare tutti senza “crescita”, semplicemente distribuendo equamente il lavoro necessario e la ricchezza prodotta.
In quest’ottica le forme e i settori di lavoro da potenziare potrebbero essere:
- agricoltura biologica
- riciclaggio
- ristrutturazione edilizia
- fonti energetiche alternative
- trasporti puliti
- istruzione saggia
- manutenzione
- assistenza
- imprenditoria sociale: il privato investe in un’impresa a finalità sociale, volta cioè a produrre beni e servizi mirati alla creazione di miglioramento sociale, ma gestita secondo i criteri delle imprese tradizionali (recupero totale dei costi) escludendo i dividendi (da M. Yunus, un mondo senza povertà, Feltrinelli, 2008, pag. 35)
Effettuare un’analisi economica da un punto di vista femminile significa anzitutto correggere l’attuale visione dell’economia, superando la netta distinzione tra lavoro retribuito e non, ed esigere che entrambe le forme di lavoro siano contabilizzate e valutate in base all’effettivo incremento del benessere individuale e collettivo che essi generano. Sebbene questo primo passo sia una resa nei confronti della convinzione errata secondo la quale tutto ciò che conta può essere contato, è un passo indispensabile per una corretta analisi dell’economia nella convinzione che “se non ci sono i dati, non ci sono i problemi, non ci saranno politiche”.
Una delle strade da percorrere per permettere a tutti di soddisfare i propri bisogni senza far crescere i consumi potrebbe essere quella di valorizzare una visione più olistica dell’esistenza umana e orientata all’apprendimento del dare e del ricevere cura, paradigma femminile di uno sviluppo inclusivo del benessere di tutti, al di là del fatto che lo conducano uomini o donne.
3) Se valutassimo i settori produttivi in base all'utilità e alla sostenibilità, che percentuale di posti di lavoro stimiamo di dovere eliminare? Si tratterebbe di una perdita secca o altri mestieri e altri settori andrebbero potenziati in un'ottica di sostenibilità?
Noi pensiamo che il “cosa produrre” non debba essere determinato solo dal mercato ( a sua volta condizionato dalla pubblicità) ma che la comunità civile ai vari livelli possa e debba mettere dei limiti alle produzioni inutili e nocive, spostando il lavoro “perso” in altri settori, di pubblica utilità.
Sicuramente la conversione di numerose aziende alla green economy porterebbe non tanto ad una perdita quanto piuttosto ad un re-impiego professionale di ruoli, funzioni, persone adeguatamente formate a nuove forme di economia.
Tuttavia non siamo in grado di stabilire il numero o la percentuale di posti di lavoro che andranno persi; secondo J. Rifkin le nuove tecnologie porteranno alla fine del lavoro di massa, soprattutto nella produzione di merci, perché il più economico dei lavoratori costerà di più della tecnologia che lo andrà a sostituire. Già in questi ultimi sette anni, in Cina che pure continua a “crescere”, si sono persi circa il 15 % di posti di lavoro.
Secondo Rifkin si dovranno ridurre le ore lavorative settimanali, passando ad un’economia basata sull’uso dell’idrogeno, come fonte di energia e spostare molte attività sul No-profit.
“Così come le politiche fiscali e monetarie oggi stimolano il Mercato dei capitali, in futuro le stesse politiche potranno o dovranno stimolare il Mercato del Sociale”
“Oggi abbiamo quindi tre settori economici: il settore Privato, il Pubblico ed il cosiddetto Terzo Settore quello del no-profit della Civil Society. Ed è in questo che dobbiamo investire perché nel Terzo Settore non potranno mai essere usate le macchine”. (J. Rifkin – intervistato a settembre 2005)
4) Quali richieste immediate avanzare al sindacato,ai partiti,alle istituzioni per favorire lo spostamento produttivo e redistribuire il ridotto ammontare di lavoro salariato?
Si potrebbe iniziare con una nuova regolamentazione del mercato finanziario, non più basato su speculazioni o sulla creazione di averi finanziari attraverso i prodotti derivati (che hanno raggiunto la cifra di 600 miliardi di dollari, pari a 15 volte il PIL mondiale), ma con regole, restrizioni e soprattutto una tassazione sugli utili.
Risulterebbe inoltre importante evidenziare le seguenti richieste:
- realizzazione di fonti energetiche alternative di piccole dimensioni
- investimento nella riconversione industriale
- sviluppo di aziende impegnate nel riciclaggio e nella manutenzione
- investimenti nei trasporti pubblici puliti
- sviluppo di cooperative di servizi
Le richieste immediate dovrebbero poi essere discusse e decise dalle comunità locali collegate fra loro in rete. In ogni caso la priorità dovrebbe essere quella di favorire un cambio di mentalità che permetta di uscire dall’idea della centralità del lavoro salariato nella vita delle persone.
Secondo S. Latouche “La sola soluzione è: la costruzione di una società di sobrietà condivisa… una nuova spartizione della ricchezza… uscire dal capitalismo… un’organizzazione diversa, più rispettosa dell’ambiente” (Intervista su il Manifesto del 26 giugno 2010)
Lo stesso Rifkin parla di “società dell’empatia”, società in cui non si prevede la crescita ma la condivisione: la costruzione di una rete di condivisione dell’energia da fonti rinnovabili, ottenuta da piccoli impianti privati diffusi capillarmente, permetterà una nuova visione sociale con energia e potere distribuiti; essenza della politica di sviluppo sostenibile e di riglobalizzazione dal basso, dove l’accesso all’energia diventa un diritto sociale inalienabile.
Il sindacato dovrebbe perseguire una strategia internazionalizzata per contrastare la globalizzazione del capitale (alla globalizzazione del capitale si dovrebbe rispondere con una globalizzazione dell’azione sindacale). La lotta per riduzione dell’orario di lavoro e per salari dignitosi dovrebbe essere concordata a livello internazionale.
Le città possono fare molto per favorire la crescita e la diffusione di “circoli di cooperazione” dove si scambiano servizi con l’introduzione di una “moneta-tempo” o si auto producono collettivamente beni e servizi essenziali avendo a disposizione strumenti e tecnologie avanzate.
Il cambio deve partire dalla formazione data dalla scuola:
- non più puntare all’integrazione sociale attraverso l’impiego, trasformando in competenze professionali le qualità umane,
- bensì preparare la popolazione a vivere periodi senza lavoro professionale sviluppando attività volontarie e libere.
Ma richieste immediate e concrete non devono essere solo palliativi per affrontare la drammaticità del momento. “E’ da 25 anni che si invoca l’emergenza per non affrontare a fondo le cose. E’ tempo di pensare a rovescio: definire i cambiamenti da realizzare partendo dal fine ultimo da raggiungere e non i fini partendo dai mezzi disponibili, dalle rabberciature immediatamente realizzabili” (Gorz pag.92)
5) L'economia pubblica va concepita unicamente come un comparto che spende o che produce anche ricchezza? La sua capacità di produrre ricchezza su cosa si fonda?
L’economia “pubblica”, o meglio “collettiva - collaborativa - locale/globale”, produce già ora le basi della ricchezza: istruzione, salute, strutture di collegamento e comunicazione... si tratta di de-burocratizzarla, rendere le persone che vi lavorano creative, responsabili e collaborative.
6) Per la parte che produce ricchezza, si possono immaginare forme di contribuzione collettiva che non risentono dell’ andamento dell’economia generale?
L’economia pubblica può benissimo fondarsi su contributi in lavoro oltre che in denaro (tasse). Gorz ipotizza una “società della multiattività” nella quale ciascuno possa alternare (nella settimana, nel mese, nell’anno, nell’arco della vita) una pluralità di attività (di produzione, di servizio, creative...) alcune delle quali potranno essere retribuite ed altre no, alcune fatte alla dipendenza di altri (pubblici o privati) altre individualmente e altre collettivamente per l’autoproduzione, usufruendo di strutture pubbliche.