Se volessimo fissare la data in cui in Italia venne sancita la fine della sovranità popolare per dare spazio alla sovranità dei mercati, dovremmo andare al 12 febbraio 1981, un giorno passato alla storia anche come il giorno del divorzio. Non fra coniugi in carne e ossa, ma fra le massime istituzioni finanziarie italiane: la Banca d'Italia e il Ministero del Tesoro. La procedura venne aperta con una lettera di Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, ma Carlo Azelio Ciampi, governatore della Banca , l'aspettava con trepidazione. Dopo tutto, era concordata.
Più che di un ripudio, si trattò di un invito a farsi da parte, la richiesta di sospendere quella che fino a quel giorno era un'abitudine consolidata. Allora, come oggi, la Banca d'Italia fungeva da tesoreria dello Stato e fra le tante funzioni che aveva, c'era anche quella di vendere i buoni emessi dal Tesoro per finanziare il debito pubblico. Ma a quei tempi c'era ancora la lira e la Banca d'Italia emetteva anche moneta, una funzione che svolgeva in stretta collaborazione con il governo. Succedeva, così, che se in occasione di qualche asta per la vendita dei titoli pubblici, non tutto veniva venduto, la Banca d'Italia acquistava la rimanenza tramite la stampa di nuova moneta. Il vantaggio di questa pratica era che il debito dello stato era più nominale che reale. Lo svantaggio era che generava inflazione, un aspetto seccante per tutti, ma a lamentarsi di più era il grande capitale che non sopportava di assistere, impotente, alla svalutazione del proprio denaro. Del resto l'inflazione generata da eccesso di moneta, per i bisogni del pubblico, non era un fenomeno limitato all'Italia e fu così che negli anni 70 si sviluppò, a livello mondiale, una nuova teoria economica, detta monetarista, che chiedeva allo stato di ridurre l'emissione di moneta lasciando che il mercato stabilisse da solo, di quanti e quali mezzi di pagamento avesse bisogno, attraverso la libera attività bancaria e la libera formazione dei tassi di interessi. La richiesta trovò prima accoglienza in Reagan e Thatcher ma poi fece breccia in ogni altro governo e in Italia ebbe la sua prima concretizzazione con quella lettera che Andreatta inviò a Ciampi il 12 febbraio 1981.
Il primo effetto del nuovo corso fu l'aumento dei tassi di interesse. Tolta di mezzo la Banca d'Italia, il mercato attuò subito la politica del ricatto dichiarandosi disponibile ad acquistare i titoli pubblici solo ad alti tassi di interesse che nel giro di un anno raddoppiarono dal 12 al 24%. Tant'è la spesa pubblica per interessi passò dai 20mila miliardi di lire del 1980 ai 127mila miliardi di lire nel 1990. Così si era messo in moto un processo di accumulo del debito provocato non da un aumento di spese pubbliche, ma di spese per interesse.
Il secondo effetto fu un aumento della dipendenza dagli investitori esteri fino a giungere alla situazione odierna che vede il 44% dei titoli pubblici nelle mani di istituti finanziari stranieri. E non della Banca Centrale Europea, che avendo come funzione principale quella di contenere l'inflazione in perfetta logica monetarista, solo di recente ha accettato di acquistare titoli di stato dei paesi europei più esposti. Se andiamo a vedere chi sono gli intermediari internazionali attraverso i quali il Ministero del Tesoro colloca i propri titoli sul mercato mondiale, troviamo le banche americane Bank of America-Merrill Lynch, Citi, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, le inglesi HSBC, Royal Bank of Scotland e Barclays, le svizzere Credit Suisse e UBS, la tedesca Deutsche Bank, la francese BNP Paribas.
Oggi che i mercati hanno portato lo scontro al livello più alto, l'aspetto che fa più paura è il comportamento della politica. In una democrazia normale, parlamento e governo agiscono per la difesa del bene comune e quando si accorgono che qualcuno li sta prendendo per la gola non cedono al ricatto, ma tirano fuori la loro potestà legislativa per ristabilire l'ordine fra chi comanda e chi obbedisce. Non è con le manovre e le manovrine che se ne esce, ma affrontando il toro per le corna, prima di tutto congelando il pagamento di interessi e capitale, tanto per spuntare le armi della speculazione. Poi affrontando i nodi strutturali del debito. Il debito pubblico italiano ha raggiunto l'astronomica cifra di 1900 miliardi di euro, appesantito recentemente di un miliardo di euro per il salvataggio del Portogallo. Ma noi come pensiamo di pagarlo un debito del genere e in quanto tempo? Ha senso ipotecare i prossimi decenni per prestiti che fin dall'inizio sono stati effettuati attraverso semplici scritture contabili e che oggi sono solo un mezzo per consentire ai loro detentori di intascarsi una parte crescente del gettito fiscale? Non dimentichiamo che l'ammontare degli interessi è a 80 miliardi di euro ossia il 25% delle entrate tributarie. Quanto vorremo continuare con una redistribuzione alla rovescia, ossia prendendo a tutti per dare ai più ricchi? Altro che imporre in Costituzione l'obbligo di pareggio in bilancio. Qui bisogna decidere come ci liberiamo del debito accumulato, riducendo il capitale in base alla posizione economica dei soggetti che lo detengono. E poi bisogna ridiscutere a chi attribuiamo potere di emissione di moneta, a chi facciamo finanziare le esigenze di cassa dei governi, come limitiamo la speculazione finanziaria. Serve tornare a fare politica alta e se i parlamentari si mostrano inadeguati, per paura o condizionamento ideologico, allora devono essere i cittadini ad alzare la voce affermando, una volta per tutte, che la sovranità appartiene al popolo, non ai mercati.
Francesco Gesualdi – Centro Nuovo Modello di Sviluppo